MUTUO IPOTECARIO E LEASING IMMOBILIARE: CONFRONTO TRA LE MODALITA’ DI SODDISFAZIONE DEL CREDITO

 

Premessa

Sempre maggiore sta divenendo la concorrenza tra le varie forme di finanziamento nel campo immobiliare, sicché una loro comparazione per valutarne la convenienza, non può limitarsi esclusivamente al profilo economico finanziario, ma deve soffermarsi su tutte le componenti, soprattutto su quelle, per così dire, strutturali.

In questo breve lavoro, si esaminerà la convenienza per il creditore di scelta tra due fattispecie contrattuali, mutuo garantito da ipoteca immobiliare e locazione finanziaria immobiliare, in termini sia di sicurezza che di rapidità di soddisfazione del credito, nel caso di inadempimento del debitore.

 

Il diritto di proprietà del concedente nella locazione finanziaria

La dottrina tradizionale nel classificare il "diritto soggettivo" distingue nell’ambito dei diritti assoluti (le cui caratteristiche consistono nella loro opponibilità nei confronti di tutti e nella capacità di soddisfare l’interesse del titolare senza bisogno della altrui cooperazione) i diritti reali su cosa propria e i diritti reali su cosa altrui. Dei primi fa parte il diritto di proprietà, tra i secondi si annoverano i diritti reali di godimento (usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie e servitù prediali) e i diritti reali di garanzia (pegno ed ipoteca). Pertanto il diritto di proprietà esaurisce la categoria dei diritti reali su cosa propria, mentre l’ipoteca è il diritto di reale di garanzia immobiliare su cosa altrui.

Già questa generale e generica definizione mette in luce una prima distinzione tra le due situazioni giuridiche soggettive. Il diritto di ipoteca insiste su un bene altrui, tant’è che l’ordinamento giuridico prevede, quale effetto reale, il cd. diritto di seguito, cioè la possibilità per il creditore ipotecario di soddisfarsi aggredendo il bene ipotecato, a prescindere da eventuali passaggi di proprietà. In definitiva la garanzia ipotecaria rimane insensibile alle vicende che possono interessare il bene e rimane sempre integra; ma - ed ecco la differenza evidente rispetto al diritto di proprietà - la sua "disponibilità" da parte del creditore è limitata alla possibilità che gli è riservata di monetizzarne il valore ai fini della soddisfazione del credito, mentre il proprietario può "disporre" in maniera piena ed esclusiva del bene, godendo di varie ed articolate facoltà.

Si è detto che il titolare del diritto di proprietà può disporre in maniera piena ed esclusiva del bene, ci si chiede se così è anche per il concedente nel contratto di locazione finanziaria. Per rispondere a questa domanda è opportuno precisare innanzitutto che la fattispecie italiana della locazione finanziaria non è assolutamente equiparabile sotto il profilo della natura del diritto di proprietà di cui è titolare il concedente alla fattispecie anglosassone del financial leasing, perchè differente è la nozione di proprietà e di ownership a cui i sistemi di civil e common law si ispirano. La distinzione, infatti, tra proprietà economica (o sostanziale) e proprietà giuridica (o formale) che caratterizza il diritto anglosassone è completamente sconosciuta nel nostro sistema di diritto continentale: secondo l’ordinamento giuridico italiano il diritto di proprietà non è scindibile, è unico e unitario. Tanto ciò è vero che, ad esempio, il nostro sistema non riconosce il cd. trust anglosassone, in cui la distinzione tra dominium utile e dominium aeminens si evidenzia in tutta la sua peculiarità.

Orbene, nel diritto angloamericano, il lessor ha la proprietà giuridica del bene mentre quella economica, sostanziale, spetta al lessee che, ad esempio, iscrive i beni locati nel proprio bilancio e li ammortizza. Non è così nel nostro sistema, dove il diritto di proprietà fa ego esclusivamente al concedente. Nel nostro ordinamento, comunque, il diritto di proprietà può atteggiarsi in maniera diversa a seconda del tipo contrattuale ed a seconda della funzione che svolge nell’ambito della complessiva operazione economico - giuridica il permanere del diritto di proprietà ed il correlativo potere dispositivo della controparte. E’ evidente che le funzioni che il diritto di proprietà svolge nella vendita con riserva della proprietà, nella locazione semplice e nella locazione finanziaria sono diverse: rispettivamente di garanzia, per riservarsi un possibile futuro godimento, per attuare il finanziamento con la messa a disposizione del bene. Ma in tutte e tre le fattispecie il diritto di proprietà è integro e pieno, anche se peculiarmente inciso in ragione rispettivamente della previsione dell’automatico trasferimento della proprietà con il pagamento dell’ultima rata (art. 1523 c.c.), dall’opponibilità della locazione avente data certa anteriore al trasferimento della proprietà (art. 1599 c.c.), dalla previsione dell’opzione di acquisto finale.

Acclarata, dunque, la pienezza del diritto di proprietà di cui è titolare il concedente, va comunque detto che la natura esclusivamente finanziaria dell’intera operazione e l’attuazione di detto finanziamento, attraverso la messa a disposizione del bene stesso, fanno sì che della proprietà rimanga in capo al concedente la mera titolarità, in quanto la gestione (e i relativi rischi e responsabilità) è di esclusiva pertinenza dell’utilizzatore. Sicché, ad esempio, in caso di inadempimento dell’utilizzatore e di relativa risoluzione del contratto, la normativa contrattuale prevede che si proceda alla vendita del bene e che il valore di realizzo sia scomputato dal debito. Siffatta indifferenza del concedente per le vicende del bene non lo esimono comunque dall’intimare contrattualmente all’utilizzatore di manutenere correttamente il bene e di tenerlo in buono stato di conservazione: proprio la pienezza dei diritti che gli competono in quanto proprietario lo portano a cautelarsi affinché alla scadenza del contratto, qualora l’utilizzatore non opti per l’acquisto del bene, oppure in caso di risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore, il bene immobile da esitare sia in buone condizioni, salvo il normale deterioramento per l’uso.

Ovviamente, poiché la messa a disposizione dell’immobile costituisce la modalità di attuazione del finanziamento, il concedente si preoccupa di valutare attentamente la situazione giuridica, economica e finanziaria del venditore, soprattutto quando si tratta di un’impresa, per il rischio, in caso di fallimento, di eventuali azioni revocatorie. Non solo, egli non trascurerà neanche una attenta verifica di congruità ed adeguatezza del corrispettivo richiesto per l’acquisto, dato che il prezzo della vendita costituisce, ovviamente, l’elemento principale di determinazione del corrispettivo della locazione finanziaria.

 

I diritti del proprietario del bene ipotecato e del creditore

Il proprietario del bene ipotecato continua a goderlo e può anche alienarlo, ma ovviamente il suo acquirente si troverà esposto all’azione esecutiva del creditore.

Anche la costituzione di diritti reali o personali di godimento soffre limitazioni. I diritti di uso, usufrutto ed abitazione, nonché le servitù a carico del fondo ipotecato, trascritti dopo l’iscrizione dell’ipoteca, non sono opponibili al creditore ipotecario, si estinguono e il creditore può far subastare l’immobile come se fosse libero (art. 2812 c.c.). Il titolare del diritto reale estinto può far valere il proprio credito sul ricavato della vendita e sarà preferito solo ai creditori ipotecari iscritti posteriormente alla trascrizione del proprio acquisto.

Il proprietario di un bene ipotecato deve salvaguardare l’integrità fisica del bene anche nell’interesse del creditore, astenendosi dal compiere atti che possano determinare il perimento o il deterioramento del bene. Infatti, l’art. 2813 c.c. concede al creditore un’azione reale con la quale egli può inibire o ordinare la cessazione degli atti pregiudizievoli, salvo adeguata cauzione. Da tale norma si costruisce un principio generale che riconosce in capo al proprietario l’obbligo di avere cura del bene anche a beneficio del creditore. Questi potrà agire pure nei confronti dei terzi (la norma dell’art. 2813 c.c. recita "Qualora il debitore o un terzo ...") e la valutazione del comportamento del proprietario potrà spingersi, a parere di autorevole dottrina, fino a ricomprendere meri fatti naturali, quali l’inondazione. Corollario di siffatto obbligo di conservazione del bene in capo al proprietario e delle relative responsabilità che gli incombono può rinvenirsi nell’art. 2742 c.c., ai sensi del quale l’indennità pagata dall’assicuratore in caso di perdita o deterioramento del bene, ovvero le somme dovute per la costituzione di servitù coattive o di comunioni forzose contro il fondo ipotecato, ovvero ancora l’indennità di espropriazione per pubblico interesse, sono vincolate al pagamento dei crediti ipotecari, secondo il rispettivo grado, salvo che siano utilizzate per la riparazione del bene.

Chi riconosce al creditore ipotecario la natura di possessore, ritiene che possa anche esercitare le relative azioni, in caso di lesione del possesso del proprietario della cosa.

L’art. 2743 c.c. consente al creditore di chiedere un supplemento di garanzia e, in mancanza, l’immediato pagamento del credito, qualora l’immobile ipotecato perisca o si deteriori (anche per caso fortuito) diminuendo il proprio valore. Il creditore può chiedere al terzo acquirente il risarcimento dei danni patiti dall’immobile per un suo comportamento caratterizzato da colpa grave (art. 2864 c.c.). La stessa azione potrà essere esperita nei confronti del terzo datore di ipoteca, che non potrà invocare il limite della colpa grave. Si badi bene che il danno risarcibile non è pari al minor valor della cosa, ma è configurabile nell’impossibilità di soddisfarsi per intero attraverso l’espropriazione; perciò il relativo processo di cognizione potrà essere instaurato soltanto successivamente al riparto del prezzo della vendita conseguente all’espropriazione.

 

Come si costituisce l’ipoteca

L’ipoteca "si costituisce mediante iscrizione nei registri immobiliari", recita l’art. 2808, 2° comma, c.c. e "deve essere iscritta su beni specialmente indicati e per una somma determinata in danaro", prosegue l’art. 2809 c.c..

In pratica, l’iscrizione avviene con la presentazione al Conservatore dei registri immobiliari, nella cui circoscrizione si trova l’immobile, del titolo e della nota in duplice originale, sottoscritta dal richiedente. Nell’ipoteca volontaria, il titolo consiste nella copia autentica dell’atto pubblico o nell’originale della scrittura privata autenticata; la nota contiene tutti i dati (indicati nell’art. 2839 c.c.) idonei ad identificare i soggetti, il bene ipotecato e il rapporto intercorrente tra il creditore, il debitore e l’eventuale terzo datore. Eventuali inesattezze od omissioni nel titolo o nelle note potranno determinare la nullità dell’iscrizione soltanto se risulti "incertezza sulla persona del creditore o del debitore o sull’ammontare del credito ovvero sulla persona del proprietario del bene gravato, quando l’indicazione ne è necessaria, o sull’identità dei singoli beni gravati" (art. 2841 c.c.).

Ricevuta la richiesta, il Conservatore ha l’obbligo di procedere all’iscrizione nei registri immobiliari del contenuto della nota secondo le modalità descritte negli artt. 2673 e ss c.c.. L’ipoteca prende grado dal momento dell’iscrizione.

L’ipoteca è un diritto reale di garanzia accessorio che segue le vicende del rapporto principale a cui è collegato geneticamente (e funzionalmente); sicché se il titolo è nullo o annullabile, altrettanto nullo o annullabile sarà l’iscrizione ipotecaria, fatta salva la convalida del titolo che provocherà la correlativa convalida dell’ipoteca.

Così come l’ipoteca nasce e si costituisce con l’iscrizione, ugualmente tutte le vicende dell’ipoteca sono efficaci ed opponibili con l’annotazione a margine delle relative iscrizioni: "la trasmissione o il vincolo dell’ipoteca per cessione, surrogazione, pegno, postergazione di grado o costituzione in dote del credito ipotecario, nonché per sequestro, pignoramento o assegnazione del credito medesimo si deve annotare in margine all’iscrizione dell’ipoteca", recita l’art. 2843, 1° comma, c.c..

E’ importante evidenziare tra le suddette vicende quella della postergazione del grado, mediante la quale i creditori si scambiano il grado, senza pregiudizio, ovviamente, dei creditori intermedi, sicché la postergazione opera nei limiti della somma indicata nell’iscrizione anteriore che viene postergata.

L’annotazione viene fatta con la presentazione al Conservatore della nota, con il deposito di copia autentica del titolo, se atto pubblico, o dell’originale scrittura privata autenticata (art. 2843, 3° comma, c.c.).

In conclusione, possiamo rilevare che sia il procedimento di costituzione dell’ipoteca con l’iscrizione, sia le eventuali successive annotazioni impongono notevoli oneri economici per spese di natura fiscale e per la redazione di atti pubblici notarili, oltre che risolversi in macchinosi e lunghi adempimenti burocratici.

Un primo provvisorio bilancio comparativo, dunque, tra il mutuo immobiliare ipotecario e la locazione finanziaria immobiliare mette in risalto innanzitutto la maggiore complessità procedimentale del primo rispetto alla seconda ed inoltre la minore (eventuale) garanzia per il creditore offerta dal bene ipotecato sul quale potrebbero già insistere altre iscrizioni ipotecarie di grado anteriore.

 

La risoluzione del contratto di locazione finanziaria.

Indubbiamente il tema della disciplina applicabile in caso di risoluzione del contratto di locazione finanziaria ha costituito sempre e costituisce ancora una delle problematiche maggiormente interessanti e dibattute riguardo a questo istituto. Prima di esporre i termini della discussione, conviene richiamare l’attenzione sull’effettiva consistenza economica della patologia in rapporto al volume d’affari. Infatti, il contenzioso avente ad oggetto la normativa applicabile in caso di risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore costituisce una percentuale davvero irrisoria con riguardo sia al numero dei contratti stipulati sia al loro valore.

Nel campo della locazione finanziaria immobiliare la soluzione del problema assume comunque un’importanza pratica rilevante, in ragione della peculiare natura del bene locato e degli importi generalmente alti dell’operazione. Se da un lato l’interesse della dottrina a questo peculiare profilo patologico del contratto si giustifica anche perché la sua trattazione è stata affrontata insieme a quella della natura giuridica del contratto, la strenua difesa degli operatori a sostegno di uno determinato orientamento (che tra breve esporrò) si giustifica soprattutto per le implicazioni che la scelta di una o altra tesi sul punto ha anche su altri profili caratterizzanti l’operazione, ad esempio sulla pienezza del diritto di proprietà riconosciuta al concedente.

Nelle sue linee essenziali il problema può così sintetizzarsi: alla locazione finanziaria, in caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, deve applicarsi la normativa prevista per i contratti di durata ex art. 1458 cod. civ. oppure quella recata dall’art. 1526 cod. civ. in tema di risoluzione della vendita con riserva della proprietà? Nel primo caso la risoluzione non estenderebbe i propri effetti alle prestazioni eseguite, e quindi i canoni già pagati resterebbero acquisiti al concedente che avrebbe diritto alla restituzione del bene; nel secondo caso, invece, l’utilizzatore dovrebbe restituire il bene ma avrebbe diritto a sua volta alla ripetizione dei canoni già pagati al concedente che potrebbe pretendere solo "un equo compenso per l’uso della cosa, oltre al risarcimento del danno".

La giurisprudenza ha sempre oscillato tra questi due orientamenti che si richiamavano principalmente a due diverse opinioni sulla natura giuridica del contratto: con causa di finanziamento la prima, con causa traslativa la seconda.

Orbene, mentre sul piano economico la natura finanziaria del nostro istituto è stata sempre unanimamente riconosciuta, sul piano giuridico si sono vissute diverse stagioni. In un primo tempo la giurisprudenza di merito era parimenti divisa tra i sostenitori da un lato della esclusiva causa di finanziamento del contratto e della sua natura di contratto di durata e dall’altro della sostanziale assimilabilità della fattispecie alla vendita con riserva della proprietà, atteso che l’estrema viltà del prezzo pattuito per l’opzione di acquisto finale del bene in relazione al suo valore di mercato non lo discostava dall’automaticità del trasferimento della proprietà con il pagamento dell’ultima rata di prezzo nella vendita con riserva di proprietà. Negli anni ottanta, la Cassazione dà ragione al primo indirizzo: la locazione finanziaria è qualificata un contratto atipico, di durata, con causa di finanziamento che non condivide alcuna delle caratteristiche proprie della vendita rateale, risultando pertanto inapplicabile la normativa recata dall’art. 1526 cod. civ..

Arriviamo così in un contesto di sostanziale incertezza al dicembre del 1993 quando la Corte di Cassazione, trovandosi a decidere sei cause sul punto della normativa applicabile in caso di risoluzione del contratto di locazione finanziaria per inadempimento dell’utilizzatore, inaugura un orientamento che poi sarà riconfermato dalla sezioni unite e sostanzialmente seguito (seppure con alterne vicende da parte della giurisprudenza di merito) fino ad oggi.

A parere del Supremo Collegio non esiste una sola figura di locazione finanziaria bensì due, a seconda di come le parti al momento della stipula del contratto abbiano quantificato il prezzo pattuito per l’opzione finale di acquisto: se, infatti, tra il prezzo concordato e il valore di mercato del bene al momento dell’esercizio dell’opzione non vi è molta differenza, il contratto avrà effettivamente causa di finanziamento e l’opzione contiene una vera e propria facoltà per l’utilizzatore; se invece il valore di mercato del bene sarà di gran lunga superiore rispetto al prezzo predeterminato, allora il contratto avrà causa traslativa perché l’utilizzatore necessariamente acquisterà, essendo per lui antieconomico non farlo. Inoltre, la Cassazione individua taluni elementi del contratto dai quali sia possibile evincere l’intenzione delle parti di adottare un modello o l’altro di locazione finanziaria: la durata del contratto, la natura dei beni, l’ammontare del prezzo dell’opzione, ecc..

L’indirizzo preso dalla Cassazione è fortemente criticato dalla maggioranza della dottrina, soprattutto perché un tale orientamento viene a spezzare in due un’operazione sostanzialmente e formalmente unitaria. A me sembra, che la Cassazione non abbia adeguatamente considerato le seguenti circostanze.

I testi contrattuali, nella varia tipologia di leasing immobiliare, di beni strumentali, di autoveicoli, presentano un contenuto standardizzato predisposto dal concedente, la loro durata si richiama a quella minima fiscalmente necessaria per la deduzione dei canoni da parte dell’utilizzatore in relazione al bene locato (immobile, auto, ecc.), la previsione della proroga del contratto obbedisce ad una scelta di natura aziendale del concedente, l’ammontare del prezzo pattuito per l’opzione finale di acquisto è determinato in ragione o della tipologia del bene (in generale è molto basso nel mobiliare e più alto nell’immobiliare) oppure di quanto è disposto a pagare l’utilizzatore nel corso del contratto. In definitiva, manca assolutamente - come in qualsiasi ipotesi di conclusione del contratto mediante la sottoscrizione di moduli o formulari - una individuale valutazione fatta dalle parti su come intendono strutturare la causa del contratto, in relazione alle loro specifiche esigenze.

Ecco perché non ha senso fondare la distinzione tra le due tipologie di leasing finanziario sulla base di una presunta iniziale volontà negoziale.

La verità è che il contratto di locazione finanziaria ha causa di finanziamento e tanto più siffatta caratterizzazione risalta oggi, perché il Testo unico del credito riserva l’esercizio di siffatta attività agli intermediari finanziari bancari e non, iscritti in appositi albi ed elenchi, il cui oggetto sociale esclusivo è l’attività finanziaria (art. 106). Assimilare, pertanto, la locazione finanziaria alla vendita con riserva di proprietà significherebbe anche ignorare la sostanziale diversità soggettiva tra le due fattispecie giuridiche.

V’è da dire comunque, per quanto interessa ai fini del presente lavoro, che anche se si volesse ritenere applicabile nel caso della risoluzione del contratto di locazione finanziaria per inadempimento dell’utilizzatore l’art. 1526 cod. civ., la tutela del creditore concedente resterebbe comunque piena. Infatti, l’utilizzatore deve restituire il bene e la determinazione dell’equo compenso per l’uso del bene oltreché il risarcimento dei danni garantirebbero al concedente di non subire perdite, trovandosi, dal punto di vista finanziario, nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se l’utilizzatore avesse esattamente adempiuto.

 

La soddisfazione del credito nella locazione finanziaria immobiliare e nel mutuo ipotecario

Esaurita l’esposizione della struttura dei due contratti, passiamo ora ad esaminare la regolamentazione giuridica della fase di soddisfazione coattiva del credito quando l’utilizzatore nella locazione finanziaria e il debitore nel mutuo si rendano inadempienti.

Nella locazione finanziaria, il concedente ha a disposizione gli usuali strumenti processuali esecutivi per aggredire il patrimonio del debitore e in più può agire per la restituzione del bene qualora il debitore non provveda spontaneamente alla sua restituzione.

In verità, nel caso di locazione finanziaria immobiliare, qualora l’utilizzatore non liberi e restituisca il bene, al concedente la giurisprudenza non permette di avvalersi del procedimento speciale di rilascio previsto dagli articoli 657 e ss c.p.c. quando l’immobile sia stato dato in locazione semplice. Si ritiene, infatti, che la specialità della procedura non ne consenta l’estensione alla locazione finanziaria. Si dovrà, pertanto, intentare innanzi al Tribunale un normale procedimento per ottenere la restituzione del bene.

Inoltre, va detto che si evidenzia nuovamente la peculiare regolamentazione contrattuale in tema di risoluzione del contratto per quanto attiene agli atti di disposizione del bene da parte del concedente. La modulistica contrattuale, ormai abbastanza standardizzata sul punto, prevede una clausola risolutiva espressa ai sensi della quale in caso di anticipata risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore, questi debba (oltre che restituire il bene) pagare i canoni scaduti fino alla risoluzione, nonché, qualora il concedente lo richieda, una somma pari alla differenza tra i canoni a scadere più il prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione finale di acquisto, il tutto detratto quanto il concedente ricavi dalla vendita del bene. Il principio che si ricava è che, dunque, trattandosi di un contratto con causa di finanziamento, si debbano allineare tutti i conteggi su una base monetaria, sicché anche il bene dovrà essere liquidato, imputando ovviamente il ricavato a beneficio dell’utilizzatore, scomputandolo dal suo debito verso il concedente.

Ciò significa però anche che le parti potrebbero concordemente attribuire un determinato valore al bene ed il concedente potrebbe procedere ai suddetti conteggi computando il valore attribuito al bene, senza necessità di venderlo immediatamente. Ecco, dunque, un altro vantaggio di cui il concedente può godere in quanto proprietario del bene: egli potrà attendere a venderlo, auspicando, ad esempio, che il mercato possa riservargli in futuro maggiori introiti.

In ogni caso si deve evidenziare che il concedente in quanto proprietario del bene potrà meglio tutelare i propri interessi di creditore, cercando di realizzare quanto più possibile dalla vendita del bene, non potendo più contare sulla solvibilità di un utilizzatore che si è reso inadempiente. Anzi, sempre più gli operatori del settore stanno affinando tecniche di marketing per vendere al meglio i beni rivenienti da una anticipata risoluzione del contratto e che ritornino nella loro disponibilità a seguito di mancato esercizio dell’opzione finale di acquisto. Sono state addirittura create società a latere che gestiscono questa fase del contratto oppure sono stati perfezionati specifici accordi in tal senso con soggetti esterni specializzati.

E’, invece, indubbiamente complessa la disciplina che porta alla soddisfazione del credito attraverso l’aggressione del bene ipotecato. Il procedimento prende il nome di esecuzione forzata ed è regolato agli articoli 474 e seguenti c.p.c.. Innanzitutto si procede alla notificazione alla parte inadempiente del "precetto", cioè della "intimazione di adempiere l’obbligo risultante dal titolo esecutivo entro un termine non minore di dieci giorni ... con l’avvertimento che, in mancanza, si procederà a esecuzione forzata" (art. 480, c.p.c.). Contro il precetto può proporsi opposizione, in ogni caso per iniziare l’esecuzione forzata è necessario attendere che scada il termine indicato nel precetto.

L’espropriazione forzata comincia con il "pignoramento" che "consiste in un’ingiunzione che l’ufficiale giudiziario fa al debitore di astenersi da qualunque atto diretto a sottrarre alla garanzia i beni che si assoggettano alla espropriazione e i frutti di essi (art. 492 c.p.c.). L’atto deve contenere le precise indicazioni dell’immobile (ci si richiama all’art. 2826 c.c.), deve essere notificato al debitore e trascritto nei registri immobiliari (art. 555 c.p.c.). Col pignoramento il debitore diventa custode dell’immobile e non può usarlo e disporne senza l’autorizzazione del giudice dell’esecuzione.

Sono gli articoli 567 e seguenti c.p.c. a dettare le regole dell’espropriazione per la vendita dell’immobile pignorato. La recente legge 3 agosto 1998, n.302 ha modificato parzialmente la disciplina, affidando in particolare ai notai gran parte degli atti prima riservati esclusivamente ai magistrati.

Decorsi almeno dieci giorni dal pignoramento i creditori muniti di titolo esecutivo possono proporre istanza per la vendita dell’immobile. L’art. 567, 2° comma, c.p.c. dispone che entro sessanta giorni dal deposito del ricorso i creditori devono presentare - a pena di estinzione della procedura esecutiva - l’estratto del catasto e delle mappe censuarie, il certificato di destinazione urbanistica (art. 18, legge n.47/85) di data non anteriore a tre mesi dal deposito del ricorso, nonché i certificati delle iscrizioni e trascrizioni relative all’immobile pignorato. Con l’introduzione della legge n.302/1998, la suddetta documentazione può essere sostituita da un certificato notarile attestante le risultanze delle visure catastali e dei registri immobiliari. Successivamente il giudice dell’esecuzione - determinato il valore dell’immobile secondo le modalità previste dall’art. 15 c.p.c. - fissa l’udienza per l’audizione delle parti e di tutti i creditori che vantano diritti sui beni e non siano intervenuti (art. 569 c.p.c.). Lo stesso articolo 569, 3° comma, c.p.c. dispone che "se non vi sono opposizioni o se su di esse si raggiunge l’accordo delle parti comparse, il giudice dispone con ordinanza la vendita" che può essere senza incanto (artt. 570 - 575 c.p.c.) o con incanto (artt. 576 - 591ter c.p.c.).

La vendita all’incanto è quella maggiormente seguita e trattasi di una procedura complessa e macchinosa, sicché proprio per cercare di velocizzare e semplificare si è intervenuti con la legge n.302/1998 affidando diversi compiti ai notai. In particolare la normativa prevede l’affidamento al notaio dei seguenti compiti:

Ovviamente l’intervento del notaio è limitato a quei compiti e funzioni che non esorbitano dal terreno amministrativo: egli non può sostituirsi nelle funzioni giurisdizionali del giudice al quale fanno capo il controllo della procedura e degli atti del notaio delegato, nonché la titolarità dell’emissione del decreto di trasferimento. La nuova normativa vuole soltanto esaltare il ruolo tecnico e di grande conoscitore delle carte catastali e dei registri immobiliari del notaio, ma non illudiamoci che in questo modo possano trovare soluzioni tutte le problematiche riguardanti la farraginosità ed articolazione del procedimento che, una semplice modifica soggettiva, certamente non renderà più agile e semplice. Va peraltro tenuto presente che il notaio continua ad espletare l’attività libero - professionale, sicché si tratta di compiti aggiuntivi ad altri già generalmente molteplici e gravosi.

Infine, è opportuno richiamare l’attenzione sulla circostanza che, a differenza della locazione finanziaria nella quale - come si è detto - il concedente non soltanto ha l’interesse, ma ha anche il potere di realizzare la vendita al miglior prezzo realizzabile sul mercato, sia il sistema dell’incanto sia quello senza incanto non riescono certamente a centrare un tale obiettivo: non è il creditore ipotecario in prima persona a gestire il procedimento di vendita e quindi non ha la possibilità di ricercare soluzioni di maggior vantaggio per i propri interessi.

 

Osservazioni conclusive

Il confronto tra il mutuo ipotecario e la locazione finanziaria immobiliare sul piano delle rispettive discipline giuridiche, ed in particolare avuto riguardo alla fase della soddisfazione del credito, ha manifestato - ci sembra con lampante evidenza - la maggiore tutela apprestata dalla locazione finanziaria al creditore - concedente piuttosto che l’ipoteca al creditore e la minore complessità comunque del primo procedimento di soddisfazione del credito.

E’ importante rilevare che nella locazione finanziaria il permanere del diritto di proprietà in capo al concedente costituisce nello stesso tempo una "garanzia" - tant’è che nei sistemi di common law è considerata as a security - e un profilo della struttura dell’operazione, per soddisfare un preciso interesse dell’utilizzatore a decidere solo alla scadenza del contratto se divenire o meno a tutti gli effetti proprietario del bene. L’attribuzione, dunque, della titolarità del diritto di proprietà - diritto "reale" per eccellenza - non si giustifica per garantire il finanziamento ricevuto, ma esclusivamente per attuare, attraverso la sola messa a disposizione del bene (e non il trasferimento del diritto di proprietà) il finanziamento. Restano pertanto integre a beneficio del concedente la possibilità di chiedere ed ottenere garanzie nonché di avvalersi come creditore di tutti gli altri mezzi consentiti dall’ordinamento per aggredire il patrimonio del debitore inadempiente.

Nel caso del mutuo garantito da ipoteca, invece, da un lato la titolarità del diritto reale di garanzia pone il creditore in una situazione di maggiore tutela rispetto agli altri creditori chirografari, dall’altro, però, questi è esposto a tutte le vicende di ordine giuridico e naturale che possono riguardare quel bene specifico, oltreché essere obbligato a seguire la complessa e lunga procedura espropriativa.

Inoltre, si è evidenziato che il creditore non ha nei confronti del bene ipotecato quegli stessi poteri di ingerenza e di controllo sul suo stato di manutenzione che invece, in maniera diretta o indiretta, esercita il concedente sul ben locato, pur lasciando piena libertà di gestione all’utilizzatore. Ci si riferisce, in particolare, a tutti quei servizi accessori - si pensi ad esempio all’assicurazione del bene - che giovano all’utilizzatore ma che giustificano l’intervento del concedente, oppure ai diritti di ispezione che per espressa previsione contrattuale il concedente si riserva.

Infine, sia consentito un breve flash sulle prospettive de iure condendo che possono riguardare il tema trattato. Il disegno di legge all’esame della Commissione Giustizia del Senato in sede deliberante tratta fra gli altri il tema della risoluzione del contrattuale e - a seguito di un emendamento presentato - il problema della restituzione del bene immobile. Quanto al primo punto, l’orientamento sembra essere quello di ispirarsi al principio (contenuto anche nella Convenzione Unidroit sul leasing internazionale) che il concedente non debba ricavare più di quanto avrebbe ottenuto se il contratto fosse andato a buon fine; una norma che prevede l’applicazione anche nel caso della locazione finanziaria degli articoli 657 e ss. c.p.c. per potersi avvalere della speciale procedura di rilascio degli immobili.

In conclusione, anche sotto tali profili e nella prospettiva de iure condendo, la locazione finanziaria sembra maggiormente conveniente per il concedente - creditore piuttosto che l’ipoteca per il mutuante - creditore.

Per completezza espositiva, conviene richiamare la principale giurisprudenza su taluni profili caratteristici esaminati relativamente alle due operazioni.

Con riguardo alla locazione finanziaria immobiliare, abbiamo in precedenza rilevato che pur piena ed esclusiva proprietà in capo al concedente si atteggia comunque in maniera sui generis, in ragione dal fatto che il bene è scelto dall'utilizzatore che ne tratta direttamente con il fornitore le caratteristiche tecniche, le modalità e i termini di consegna, nonché lo stesso prezzo di acquisto. In una tale ottica si giustificano pienamente due recenti sentenze dalla Cassazione, la prima del 2 marzo 1998 n.2265 che legittima il patto manleva tra concedente e fornitore per i vizi del bene e l’azione diretta dell'utilizzatore nei confronti di quest’ultima, la seconda del 2 ottobre 1998, n.9785 che riconosce siffatta azione diretta anche in assenza di apposita clausola contrattuale.

Infatti siffatta legge: "si deve ritenere che nel contratto di locazione finanziaria all'utilizzatore può essere riconosciuta una tutela diretta verso il fornitore per i vizi della cosa non solo attraverso specifiche clausole contrattuali, ma anche nel caso contrario, perché con il contratto in questione l'utilizzatore si appropria degli effetti del rapporto gestorio instaurato dal concedente.

D’altro canto la Corte di Cassazione ha riconosciuto siffatto principio anche quando ha stabilito che è valida la clausola del contratto di locazione finanziaria che fa gravare sull’utilizzatore il rischio della mancata consegna del bene. Giustamente la Corte di Cassazione con sentenza del 2 agosto 1995, n.8464 ritiene che "la soluzione del problema deve ricercarsi nella linea logica che individua il contratto di leasing finanziario una funzione di finanziamento.

Lo scopo della clausola di inversione del rischio è coerente con la figura del concedente quale finanziatore. L’inversione del rischio tende a fare conseguire al concedente la restituzione della somma anticipata. Con ciò si delinea nella sfera del predisponente la clausola una giustificazione apprezzabile, tale da escludere che detta clausola consenta un arricchimento ingiustificato.

Non è sufficiente, peraltro, rilevare la congruenza della clausola ad un interesse del concedente, sia pure meritevole, essendo necessario individuare se il correlativo depauperamento dell’utilizzatore (e la clausola che lo consente) possa giustificarsi nella sfera dell’utilizzatore stesso.

Poiché la linea degli interessi che reggono la posizione contrattuale dell’utilizzatore si individua nell’interesse al godimento del bene, cui si accompagna quello a ricevere credito (mediante la tecnica del corrispettivo periodico) e ad acquistare discrezionalmente la proprietà del bene (patto di opzione), ciò che giustifica dal lato dell’utilizzatore l’inversione del rischio deve ricercarsi nei vantaggi perseguiti dal ricorso ad una tecnica strutturale unitaria in grado di soddisfare contemporaneamente l’interesse primario e quello al finanziamento. In questa prospettiva l’inversione del rischio costituisce un costo che, insieme ad altri, l'utilizzatore sostiene in cambio dell’economia negoziale e dei vari benefici a questa inerenti.

L’inversione del rischio, quindi, integra un costo funzionalmente giustificato da un lato , per il finanziatore, dall’interesse di conseguire quanto anticipato; dall’altro, per l'utilizzatore, dall’interesse a realizzare l’economia negoziale coni vantaggi a questa connessi (anziché ricorrere, per conseguire lo stesso fine, ad una serie autonoma di contratti in sequenza di finanziamento e traslativi).

Il bilanciamento dei due interessi ammissibile e meritevole di tutela l’attribuzione del rischio all’utilizzatore, sempre che le clausole non abbiano puntualizzazioni tali da portare ad arricchire un concedente, che non debba sborsare alcunché o che abbia ripetuto dal fornitore il prezzo del bene (non è questo peraltro il caso di specie).

Infine, con riguardo alla qualificazione del contratto come leasing di godimento o leasing traslativo, anche la sentenza della Cassazione del 18 novembre 1998, n.11614 si richiama sostanzialmente alla decisione a sezioni unite del 7 gennaio 1993, n.65 che riprendeva a sua volta quella del 13 dicembre 1989, n.5572 - 5573. Si segue lo stesso itinerario logico - giuridico che leggiamo in Cass. 17 dicembre 1997, n.12790: "se la risoluzione del contratto può produrre effetti diversi in ordine alla stabilità delle prestazioni eseguite nel corso del rapporto, ed effetti diversi secondo che si tratti di leasing di godimento o di leasing traslativo, ciò può solo derivare dal fatto che i due tipi hanno una diversa causa, realizzano cioè un differente assetto di interessi ed allora la distinzione deve di necessità fondarsi su dati coevi al sorgere del rapporto, non su dati successivi.

Non può dunque assegnarsi rilevanza alla circostanza che, quando il contratto si risolve, i corrispettivi pagati superino la perdita di valore subita dal bene: si tratta, in questo caso, unicamente di una conseguenza di fatto eventuale, derivante dal tempo in cui si determina la risoluzione e dal modo in cui le parti hanno contrattualmente scaglionato nel tempo il pagamento del corrispettivo.

Va invece dato rilievo a quello che, al momento di concludere il contratto, doveva essere il prevedibile residuo valore del bene, una volta che il medesimo contratto fosse giunto alla sua naturale scadenza.

E’ in questo senso che vanno applicati i principi elaborati dalla giurisprudenza della corte che – a partire dalla sentenza 13 dicembre 1989, nn.5569, 5571 e 5574 (Foro it., Rep. 1990, voce Contratto in genere, nn.200, 199, 196), nn.5572 e 5573 (id., 1990, I, 4619, n.5570 (id., Rep. 1990, voce Fallimento, n.439, 532) e poi con la sentenza delle sezioni unite 7 gennaio 1993, n.65 (id., 1994, I, 177) - ha distinto, nell’ambito del contratto atipico di leasing, i due tipi contrattuali del leasing di godimento e del leasing traslativo.

E’ stato infatti ed in particolare osservato – da Cass. 13 dicembre 1989, n.5572 - che <<la concezione tradizionale del leasing si fonda tutta sulla conformazione del bene oggetto del godimento dell’utilizzatore, in quanto le parti prevedono, al momento del contratto, che la res acquistata dalla società finanziaria in nome proprio e per conto dell’utilizzatore esaurisca le utilità economiche di cui è capace entro un determinato periodo di tempo, che coincide di regola con la durata del contratto. In questa ipotesi, si comprende come lo scopo dell’utilizzatore, dedotto in contratto, non sia tanto quello di acquistare la proprietà del bene, quanto di assicurarsene il godimento per tutto il periodo in cui il bene stesso è idoneo ad apportare le sue utilità economiche. Ciò spiega come il ricorso a tale figura giuridica sia proprio di soggetti, imprenditori o commercianti, i quali più che alla proprietà mirano a conseguire il godimento del bene, pur sopportandone tutti i rischi ed il pagamento di un canone periodico, il quale – proprio perché, nell’ipotesi considerata, alla fine del rapporto, l’uso del bene ne determina l’obsolescenza pressoché completa - è commisurato all’entità del godimento, che in tal caso si risolve nel suo valore intrinseco. Ne consegue che il canone periodico sconta per tutta la durata del contratto la progressiva obsolescenza del bene, il quale, al termine del rapporto, non avrà, secondo l’iniziale previsione delle parti, più alcun valore, esaurito pressoché completamente dal godimento dell’utilizzatore>>.

E – sempre da Cass. 13 dicembre 1989, n.5572 - si è ancora osservato che a questa figura se ne è venuta affiancando altra, nella quale <<diversamente dalla precedente, l'utilizzatore non solo può non essere un imprenditore, ma la durata del contratto non è più commisurata alla vita economica del bene, essendo stabilita in funzione del previsto effetto traslativo (anche se non automatico, ma eventuale). In sostanza, al momento della formazione del consenso, le parti prevedono che il bene, avuto riguardo alla sua natura, all’uso programmato e alla durata del rapporto, è destinato a conservare alla scadenza contrattuale un valore residuo particolarmente apprezzabile per l'utilizzatore, in quanto notevolmente superiore al prezzo di opzione, sicché i canoni corrisposti dall’utilizzatore non trovano più autonoma giustificazione nel mero godimento della res, ma costituiscono anche il corrispettivo, attesa la particolare convenienza per l'utilizzatore, che ha pagato tutti i canoni maturati in costanza del rapporto, di conseguire la proprietà di un bene ancora efficiente (anche se usato) attraverso il versamento del canone finale (corrispettivo dell’opzione), assai ridotto rispetto ai canoni precedentemente versati e di importo di gran lunga inferiore al valore residuo del bene >>.

Dunque, per la distinzione tra i due tipi contrattuali e la loro correlativa disciplina in caso di risoluzione, ciò che acquista rilievo è, come si è detto all’inizio, il fatto che la previsione di futura utilizzabilità del bene superi la durata del contratto."

In verità in materia ipotecaria l’unica giurisprudenza interessante ai nostri fini è quella in tema di estinzione e di relativa cancellazione. E così per Cass. 26 luglio 1994, n.6958 "quando la garanzia ipotecaria sia divenuta priva di oggetto e di causa, perché costituita su un bene non appartenente al debitore, ma di proprietà esclusiva di un terzo (nella specie, era intervenuta sentenza dichiarativa della simulazione dell’acquisto della quota dell’immobile intestata al debitore), è illegittimo ed ingiustificato nei confronti del terzo il comportamento del creditore che rifiuti di collaborare, prestando il proprio consenso alla cancellazione dell’ipoteca, ai sensi dell’art. 2882 c.c..

E la stessa sentenza precisa che "in tema di ipoteca, la natura reale del vincolo ed il valore costitutivo dell’iscrizione comportano che, mentre nei confronti del creditore l’estinzione dell’obbligazione estingue anche la garanzia ipotecaria che l’assiste, nei confronti dei terzi è necessaria anche la cancellazione dell’ipoteca, poiché il permanere dell’iscrizione, nonostante l’estinzione del credito, può essere di pregiudizio per il proprietario, in quanto determina un intralcio al commercio giuridico del bene, potendo i terzi ignorare la reale situazione ed essendo essi generalmente inclini a dare rilevanza all'apparenza del vincolo".